Martina Pasini | La Bolivia che sanguina tra il sudore dei poveri
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La Bolivia che sanguina tra il sudore dei poveri

L’autoritarismo del governo Morales, le politiche liberiste e la colonizzazione delle multinazionali, cui si oppone la resistenza delle comunità indigene: la Bolivia appare come un paese lacerato dai conflitti interni, dalle disuguaglianze sociali, dalle differenze culturali. Attraverso la storia della comunità di San José de Uchupiamonas, ritratto di un paese che cerca di sottrarsi allo sfruttamento feroce delle proprie risorse naturali, proponendo uno sviluppo economico alternativo nel rispetto dell’ecosistema, delle tradizioni e delle identità locali.

di Pasini Martina

La Bolivia è stato uno dei paesi del continente latinoamericano su cui ha più gravato il giogo dell’impero spagnolo: la ricchezza delle sue terre è sempre stata una maledizione per le sue genti. Lo sfruttamento intensivo e indiscriminato di risorse naturali e di vite è una delle cause dell’attuale arretratezza economica del paese, e la razzia prosegue: il 13 agosto di quest’anno il presidente Evo Morales ha firmato la legge 266, che revoca l’intangibilità del territorio indigeno e del Parco naturale Isiboro Sécure, meglio conosciuto come Tipnis. Partendo da un’analisi del contesto storico e culturale che ha permesso al governo Morales di attuare una vera e propria seconda colonizzazione all’insegna dello sfruttamento più feroce delle risorse naturali del paese, questo reportage si focalizza sui con conflitti sociali derivati dallo sfruttamento da parte di imprese statali e multinazionali di territori e risorse comunitarie, dando voce agli attivisti, ai collettivi e soprattutto a quelle comunità indigene che più risentono della sistematica distruzione di quei luoghi ed ecosistemi su cui si basa non solo la loro economia, ma anche la loro cultura. È il caso della carretera in costruzione che sventra il Tipnis, della costruzione delle mega dighe nel Parco nazionale Madidi in Amazzonia, delle perforazioni per l’estrazione di gas naturale nella Riserva nazionale di Tariquía, dell’auto-sfruttamento a cui sono obbligati i minatori boliviani nella regioni minerarie.
La deriva nazionalista a cui molti paesi anche europei si stanno abbandonando, il razzismo, il maschilismo, l’emergenza climatica, i problemi derivanti dai fenomeni migratori, il capitalismo esasperato, il consumismo, il militarismo, il neocolonialismo sono tutte problematiche solo apparentemente scollegate; in realtà sono trame di uno stesso tessuto che devono essere affrontate con analisi e soluzioni integrate. I movimenti, grazie alla loro trasversalità sociale, al dinamismo e a una coscienza critica maturata dal basso, possono fungere da catalizzatore e imporsi come motore del cambiamento: esistono alternative a un sistema capitalistico neoliberista in fase di implosione, erosivo e ormai insostenibile e possono essere applicate in Bolivia ed esportate in Occidente. In un’America Latina dalla storia giovane, lo «spazio di manovra» per teorizzare sistemi alternativi è maggiore rispetto a quello dell’Occidente, dove i vecchi paradigmi politici di destra e di sinistra hanno atrofizzato idee e coscienze, incrementando un senso di disaffezione, passività e disinteresse nei confronti della politica.
I minatori del Cerro Rico, gli abitanti della comunità indigena di San José de Uchupiamonas, i contadini di Tariquía e tutti gli altri boliviani che, per sopravvivere, sono obbligati a svolgere lavori pericolosi e sottopagati, la cui terra è aperta e depredata e la cui cultura millenaria è stata resa un feticcio vuoto, costituiscono la Bolivia che lotta e rivendica, tra sudore e sangue.

 

Uno sguardo d’insieme

La Bolivia si trova nel cuore dell’America Latina ed è circondata da grandi potenze politiche ed economiche come il Cile, il Brasile e l’Argentina: il ruolo economico che ricopre è sostanzialmente quello di produttrice di materie prime destinate all’esportazione e di forza lavoro a basso costo.
L’economia è basata principalmente sull’estrazione e sulla vendita di gas naturale e minerali allo stato grezzo e sul latifondo coltivato a soia, canna da zucchero e coca.
Evo Morales Ayma, a capo del Movimento per il socialismo (Mas), è stato il primo presidente indio nella storia del paese: è in carica dal 2006 e il terzo mandato terminerà nel 2019, senza possibilità di rielezione. Nel febbraio 2016 il governo ha proposto alla popolazione un referendum costituzionale per permettere a Morales di ricandidarsi per un quarto mandato: i boliviani hanno detto no. «Morales ha perso il referendum del 21 febbraio perché si è dimenticato di quanto sia costato ai boliviani un sistema democratico seppur formale», mi spiega Gustavo mentre beviamo un caffè. «Le persone si sono rese conto che la situazione avrebbe potuto prendere una piega dittatoriale e autoritaria. Tuttavia non si può dire che in questo paese esista una vera consapevolezza di cosa sia la democrazia: è sufficiente che non si instauri nuovamente una dittatura o un regime militare». Gustavo Soto Santiesteban è stato il fondatore del Centro de estudios aplicados a los derechos economicos, sociales y culturales (Ceadesc), attivo a Cochabamba dal 1997 al 2015: ha dovuto chiudere a causa delle leggi anti-ong e anticooperazione imposte dal governo Morales. «La mia non era un’ong incentrata sul desarollo, sullo sviluppo economico, ma impegnata a forticare il tessuto culturale e comunitario all’interno dei pueblos indigenas e a far loro acquisire un’esperienza di negoziazione con il governo. Dopo che l’ong danese che ci finanziava è stata espulsa dal paese, ci rimanevano due opzioni: chiudere o venderci. Abbiamo deciso di chiudere».
«A partire dal 2000», prosegue Gustavo, «il tema dell’indigenismo si impone con forza nel dibattito pubblico. La prima grande Marcha indígena por el territorio, la vida y la dignidad risale al 1990: per 34 giorni, persone provenienti da differenti comunità indigene camminarono da Trinidad a La Paz, ottenendo il riconoscimento di “tierras comunitarias de origen” (Tco), per diversi territori dell’Amazzonia, tra i quali il Parco nazionale Isiboro Sécure, meglio conosciuto come Tipnis. I tco, ottenuti sotto governi che possono essere definiti neoliberisti, come quello di Gonzalo Sánchez de Lozada, sono terre collettive: non possono essere vendute o parcellizzate, né tanto meno ipotecate. Le comunità indigene esercitano su queste terre, che sono i loro territori ancestrali, sia il diritto di usufrutto, sia quello della consulta previa: lo Stato è tenuto a consultarle prima di prendere qualsiasi decisione su di esse. In questo modo viene applicata l’autodeterminazione stabilita dalla Costituzione: lo Stato, tramite la consulta previa, dovrebbe tutelare i popoli indigeni e le loro terre, è un riconoscimento di potere dalla base.
Nell’immaginario comune la Bolivia è il Lago Titicaca e gli altipiani, comunemente chiamate terre alte. In realtà la regione del Chaco-Amazonia, conosciuta invece come terras bajas,terre basse, occupa circa il 70 per cento del territorio boliviano: sono le terre orientali, quelle meno densamente popolate. Dal 1990 a oggi, la marcia è stata utilizzata molte altre volte dagli abitanti delle terre basse per reclamare i propri diritti: è una modalità di protesta totalmente pacifica, anche se a volte la reazione delle forze dell’ordine non lo è affatto, come dimostra il caso di San Miguel de Chaparina nel 2011. Dal punto di vista storico, le terre basse sono una delle poche zone che gli Inca non sono riusciti a sottomettere: hanno conquistato tutte le popolazioni dal Sud della Colombia al Nord dell’Argentina, compresa metà del Cile, ma nulla poterono contro il gruppo etnico tupi-guaraní, le popolazioni della regione del Chaco-Amazonia. I guaraní si autodefiniscono «uomini liberi, senza Stato e senza padrone».
Non ci vuole un occhio esperto per capire quanto le comunità delle terre alte e quelle delle terre basse siano differenti le une dalle altre, sia dal punto di vista culturale, sia per quanto riguarda usi, costumi e indole: scendendo da un autobus che collega Santa Cruz a Trinidad, sembra di arrivare in un altro paese; le Bolivie di fatto sono due. «Gli andini», mi spiega Gustavo, «hanno una concezione ostile degli alberi: i boschi sono luoghi in cui si può nascondere un pericolo, il male. Quando acquisiscono dei territori in Amazzonia, la prima cosa che fanno è bruciare gli alberi, perché dove c’è un albero può esserci un giaguaro o un serpente, animali che invece per le comunità delle terre basse sono sacri. Fa parte della cultura del “quema y cosecha”,brucia e raccogli quello che hai seminato.“El Evo”, come viene chiamato da tutti Morales, fa parte della nazione indigena Aymara originaria degli altipiani e, prima di diventare presidente, è stato uno dei leader sindacali dei cocaleros, i coltiva- tori di coca, che dalle terre alte si sono spostati a colonizzare le zone tropicali. Esistono due tipi di coca», prosegue Gustavo: «Quella che viene utilizzata per pinchar, cioè per la masticazione, coltivata principalmente nella regione di La Paz e Cochabamba, e quella del Chapare, destinata alla produzione della cocaina e al narcotraffico. Nella zona chiamata Poligono 7, che è parte del Cha- pare e del Tipnis, si coltiva da molti anni questo tipo di coca, e ormai le terre sono estremamente impoverite. Per questo i cocaleros vogliono ampliare le coltivazioni all’interno del Parco nazionale Isiboro Sécure, ma per farlo hanno bisogno dell’abrogazione della legge 180, quella che sancisce l’intangibilità del parco».
La foglia di coca è autoctona della regione delle yungas, dove le precipitazioni sono abbondanti e sono presenti determinati minerali nel terreno che ne consentono una crescita equilibrata. Coltivare la coca nella pampa, dove ci sono condizioni ambientali completamente differenti, obbliga all’utilizzo di molta acqua in una zona in cui scarseggia e di antiparassitari che inquinano uno degli ambienti più ricchi in biodiversità e più fragili al mondo. «I cocaleros del Poligono 7 sono i grandi imperatori della coltivazione, della produzione, della trasformazione e di buon parte della commercializzazione della cocaina». Gustavo mi spiega che tutta la catena produttiva in Bolivia è in mano alle stesse persone: ci troviamo di fronte a una sorta di narco-capitalismo popolare gestito interamente dai sindacati. «Non ci sono clan o cartelli, come in altri paesi dell’America Latina: è avvenuta una democratizzazione della catena produttiva e commerciale. Il denaro si muove nel circuito del commercio informale, perché la stessa produzione è informale. Secondo le statistiche sull’impiego del Centro de estudios para el desarrollo laboral y agrario (Cedla), in Bolivia solo il 30 per cento della popolazione ha un lavoro regolamentato da un contratto, tutti gli altri sono in nero. E di questo 30 per cento più della metà sono impiegati pubblici, che non possono contestare l’operato dello Stato perché perderebbero il lavoro».
Grazie al boom del 2006 del prezzo delle commodities − cioè delle materie prime come gas, petrolio, minerali − e a un potente apparato propagandistico, l’attuale presidente è riuscito ad acquisire una popolarità e un appoggio senza precedenti. «In realtà», prosegue Gustavo, «alcune delle politiche economiche “socialiste” di cui il governo vanta il successo, sono pura propaganda: ad esempio, la nazionalizzazione degli idrocarburi in realtà non è mai avvenuta. Prima di tutto, la legge 3058 sugli idrocarburi è stata promulgata nel maggio 2005 da Hormando Vaca Díez, presidente del Congresso del governo precedente, come effetto del referendum del 2004. Questa legge, tra le altre cose, stabiliva che la somma delle royalties e delle imposte dirette non dovesse in nessun caso essere inferiore al 50 per cento del valore della produzione degli idrocarburi; questo aumento della tassazione favorì sensibilmente l’aumento delle entrate. In secondo luogo, quella che Morales spaccia come una nazionalizzazione consiste semplicemente in una modifica formale delle percentuali di partecipazione nella produzione del gas: non c’è stato un trasferimento reale nella gestione dei campi idrocarburiferi dalle mani delle imprese straniere a quelle della Ypfb, l’impresa di Stato».
Sono molti i fraintendimenti volutamente creati in questi dieci anni di governo Morales «ma ciò che fa più male è l’uso da parte loro della teoria del buen vivir, le cui radici stanno nella cultura indigena che viene smantellata ogni giorno. Buen vivir è una parola polisemica ed è la traduzione in castellano di numerosi concetti indigeni: per il popolo guaranì significa “il nostro cammino, il nostro modo d’essere”, per quello Aymara, “il nostro migliore modo di vivere”. Il governo ha mitologizzato e strumentalizzato la teoria del buen vivir per consolidare la sua fittizia identità indigenista ed ecologista, ma già dal 2010 era chiaro che il piano economico era tutt’altro: desarollista e contro il buen vivir».
«Il buen vivir», conclude Gustavo, «è un orientamento e deve essere applicato nel programma economico e politico, non solo citato sulla carta. La costruzione di autostrade e dighe in territori indigeni e parchi naturali, le politiche di esasperato estrattivismo, il disboscamento: non c’è nulla in tutto questo che sia lontanamente coerente con la teoria del buen vivir». Pago i caffè e usciamo.

 

Resistere a una morte silenziosa: il caso delle dighe nel Parco Madidi

«La città di Rurrenabaque nel Beni è la porta d’ingresso a tre aree protette di interesse nazionale: il Parco nazionale Madidi, la riserva Pilon Lajas e la riserva municipale della Pampa di Yacuma. Questi territori sono chiamati “terre basse”. Qui non siamo organizzati in cooperative e sindacati, come avviene invece nelle comunità contadine dell’altopiano, ma in pueblos indigenas. Ogni pueblo ha un presidente, detto corregidor o cacique, che con l’appoggio di un direttivo rappresenta la comunità e ne difende gli interessi». Alex Villca Limaco ha le dita molto lunghe, da pianista. Le guardo mentre accarezzano la mappa della regione appesa alla parete del suo ufficio nella città di Rurrenabaque. Alex è portavoce del Coda, l’organizzazione non-profit che coordina la difesa dell’Amazzonia. In questo periodo sta lavorando per conciliare il progetto di lotta delle Mancomunidad de comunidad indigenas de los rios Beni, Quiquibey y Tuichi e quello del Coda, in cui militano persone che, come lui, sono originarie delle nazioni indigene della zona ma che vivono in città per motivi lavorativi. Il primo obiettivo del Coda è quello di creare uno spazio in città dove si possa discutere e approfondire la tematica socio-ambientale e il secondo è quello di far gemmare altri collettivi in tutta la regione amazzonica per allargare il bacino d’informazione e di lotta. L’idea di fondo è creare organizzazioni che combattono per la difesa ambientale e per i diritti delle comunità indigene in tutto il continente latino-americano: bisogna unirsi, questo è lo slogan di guevariana memoria portato avanti con determinazione da Alex.
«Fino ad ora le nostre lotte sono state isolate e individuali: la situazione deve cambiare, queste battaglie vanno portate avanti insieme, ignorando le frontiere geografiche, perché i pueblos indigenas non hanno mai avuto frontiere. La difesa della madre terra deve avvenire per ecosistemi: se fosse così, ci sarebbero le nazioni indigene di nove Stati sudamericani a combattere in difesa dell’Amazzonia. A mio avviso, dovremmo smettere di considerarci solo come Stati e iniziare a “leggerci” come macroregioni. Ad esempio, la lotta contro le mega dighe del Chapete-Bala dovrebbe essere portata avanti da tutti i pueblos indigenas che si trovano lungo il bacino del rio Beni. Sarebbe un ragionamento cieco lasciare sole quelle comunità che subiscono direttamente le conseguenze di queste mega opere: se viene sensibilmente modificato il flusso del fiume vengono danneggiati sia i pueblos a monte, sia quelli a valle. Il governo minimizza sull’impatto ambientale di questi progetti, dicendo che i territori coinvolti sono solo una piccola parte: un corpo può vivere lo stesso senza un braccio, ma sarà mai come prima?», si chiede Alex.
Il Parque nacional y Area natural de manejo integrado Madidi (Pnanmi) si trova nel Nord-Ovest del dipartimento di La Paz ed è considerato una delle riserve con maggior diversità di ora e fauna a livello mondiale. Nasce il 21 settembre del 1995, in un contesto di dubbi e polemiche: se da una parte rappresentava la volontà di tutela da parte di un governo che dimostrava per la prima volta un interesse serio nei confronti dell’ambiente e delle comunità indigene, dall’altra era motivo di preoccupazione per queste ultime. «Quando il governo decise di creare il parco», mi spiega Alex, «chiese a tutte le comunità se fossero o meno d’accordo e la maggioranza non lo era, perché avevano paura di perdere il lavoro e l’accesso alle risorse che permettevano loro di vivere. Molti si dedicavano all’estrazione di materie prime, al taglio e alla lavorazione del legname, alla caccia e alla pesca: con la creazione del parco tutto ciò diventava proibito. Alle compagnie che commerciavano in legname vennero dati due anni di tempo per abbandonare la zona, con controlli periodici da parte delle istituzioni per certificare che ciò avvenisse. Il parco ha un’estensione di quasi 19 mila kmq: sul territorio sono presenti venticinque diverse comunità indigene. «A San José de Uchupiamonas, la comunità da cui provengo e che è anche l’unica completamente all’interno del parco», continua Alex, «è attivo dal 1992 il progetto Chalalan: il primo totalmente incentrato sull’eco-turismo. Anche per questo motivo gli abitanti di San José hanno appoggiato sin dall’inizio il progetto di creazione del parco, purtroppo ora non sono così uniti nel rifiutare le mega opere del governo».
Il progetto idroelettrico El Bala prevede la costruzione di due dighe a cascata, una nello stretto del Chepete di 158 metri di altezza e un’altra nel Bala di 22 metri: il programma è quello di costruire la prima nei prossimi due anni e la seconda entro i prossimi dieci. Secondo gli studi di Geodata, l’azienda di Torino con cui la Empresa nacional de electricidad (Ende), su invito diretto, cioè senza nessuna gara d’appalto, ha firmato nel luglio 2016 un contratto per l’elaborazione del «Estudio de diseño tecnico», la diga del Chapete inonderà un’area di circa 679,98 kmq: una superficie superiore alla città di La Paz. Il costo previsto è di 6 miliardi di dollari. «È la prima volta nella storia della Bolivia», spiega Alex, «che vengono spesi così tanti soldi in un unico progetto, di cui unici beneficiari sono il governo e le transnazionali, non sicuramente i popoli indigeni. Non ci stanno puntando una pistola alla testa, ci stanno inducendo a una morte silenziosa: se ci cacciano dalle nostre terre e ci ricollocano altrove, pian piano scompariremo. La nostra resistenza ha raggiunto l’apice nel novembre 2016 quando, dopo dodici giorni di proteste, abbiamo ottenuto che la Geodata se ne andasse. Il governo decise di minimizzare il nostro intervento sui mezzi di comunicazione, descrivendoci come gente di destra latinoamericana, stranieri delle ong, oppositori dello sviluppo del paese. Poco dopo, hanno iniziato ad arrivare in tutte le comunità rappresentanti del governo: l’intento era quello di ammorbidirci con promesse e offerte di servizi di base che dovrebbero essere garantiti di per sé, come acqua corrente nelle case, luce elettrica, strade, ospedali, scuole. Il governo sta ingannando le comunità con false promesse, le sta comprando e, quel che è peggio, le sta dividendo, danneggiando addirittura vincoli familiari. Non solo queste due mega dighe vanno a inondare i nostri territori», prosegue Alex, «ma danneggiano irreversibilmente anche una della riserve più ricche di biodiversità del pianeta, patrimonio naturale e culturale che non è solo dei pueblos indigenas, ma di tutta l’umanità. Morales va ai congressi internazionali presentando il suo governo come difensore della madre terra e dei diritti dei popoli indigeni: sono tutte bugie, ed è necessario che la stampa internazionale diffonda la verità. Le nazioni indigene delle terre basse hanno una cosmo-visione differente da quella di chi abita le terre alte. Per noi le montagne, i boschi, gli animali rappresentano la nostra storia e la nostra cultura, ciò che ci permette di vivere, che ci cura quando siamo malati, che in passato ci ha vestito. Non vediamo la natura solo come una risorsa economica, perché noi sappiamo di farne parte e che è nostro compito proteggerla. Il pianeta ha la necessità di trovare un equilibrio sostenibile, perché le risorse di cui disponiamo sono sempre più esigue. Questa nostra resistenza ha una matrice che non è di destra, ma neanche di sinistra: noi non ci sentiamo rappresentati da nessuna delle due parti, la nostra lotta è differente. Vogliamo ricostruire la politica: ci sono maniere alternative di considerare e amministrare le risorse naturali, come ci sono altre maniere di governare a partire dal rispetto delle diversità».

“Se ce ne andremo, ce ne andremo morte”. Così hanno detto le signore più anziane del villaggio durante l’assemblea che abbiamo avuto ieri sera. Fino alla scorsa settimana la comunità era compatta e unita nel rifiutare qualsiasi proposta; poi negli ultimi giorni sono arrivate persone inviate dal governo, offrendo scuole e altri servizi e si è creato un po’ di subbuglio. Ma ieri ci siamo riuniti e alla ne abbiamo deciso di rimanere coesi nell’osteggiare fermamente il governo nella costruzione di queste mega opere sul nostro territorio. Qui siamo nati e qui moriremo, non abbiamo paura di nessuno». A parlare è Noé Marcos Macuapa, corregidor della comunità di San Miguel del Bala, sulla sponda occidentale del Rio Beni, a mezz’ora di canoa da Rurrenabaque. San Miguel è una delle comunità che dovrà affrontare la ricollocazione, nel caso vengano costruite le due mega dighe nello Stretto del Bala e del Chepete. Noé ha trent’anni e una bella famiglia: la moglie ci fa accomodare all’aperto e ci offre un bicchiere di limonata fresca, mentre la figlia di due anni gioca nel cortile. La sua casa è una palafitta in legno con un ampio tetto di paglia, rialzata di mezzo metro dal suolo: l’ha costruita lui stesso, sulla riva del fiume.
«La mia comunità, come le altre lungo il fiume, ha sempre vissuto di caccia e pesca: eravamo seminomadi. Nel 1995, con la nascita ufficiale del Parco Madidi, queste attività commerciali vennero proibite: solamente noi indigeni avevamo accesso alle risorse per il sostentamento delle nostre famiglie. La decisione successiva fu quella di investire nel turismo comunitario: così iniziammo a cercare finanziamenti a livello nazionale e internazionale. Non avevamo idea di come si lavorasse con i turisti: per noi ogni persona con la pelle chiara era semplicemente un gringo. A poco a poco imparammo le lingue, a fare le guide, a cucinare cibi che potessero piacere anche ai turisti. Sono state tappe lunghe e anni molto difficili: per noi fu un cambiamento drastico. Iniziare a guardare gli animali che prima cacciavamo nel bosco come un’attrazione turistica e non come cibo, fu una delle cose che ci costò più fatica: vedevamo un tapiro e ce lo immaginavamo alla griglia».
«Dopo più di dieci anni», continua Noé, «ci arriva un’altra pessima notizia, un vero incubo: alle porte di casa nostra verrà costruita una diga gigantesca per la produzione di energia elettrica. Molti membri della comunità non avevano nemmeno idea di cosa fosse una diga: gli è stato spiegato che il fiume verrà interrotto nel suo corso e che verrà costruita una muraglia di 160 metri. Quando ci venne data questa notizia l’impresa italiana Geodata stava già facendo studi di perforazione sia nello Stretto del Bala sia nel Chepete. Tutta questa area è un Tco: le imprese non possono entrare e fare dei lavori senza il nostro consenso. È stata violata sia la Costituzione boliviana, in cui viene specificato che opere come questa devono essere precedute dalla consulta previa, sia l’accordo internazionale 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Non siamo stati informati, nessuno è venuto a spiegarci quale fosse il progetto, quali sarebbero state le conseguenze o i benefici per noi e il nostro territorio. Il governo ci ha detto successivamente che saremmo diventati il centro energetico del Sudamerica e noi tutti ci siamo chiesti: perché? Perché non essere invece il centro turistico della Bolivia, investendo in energia solare ed eolica, proteggendo il nostro ecosistema e la nostra cultura ancestrale? Oppure il centro agro-ecologico del paese, puntando sulla coltivazione di prodotti ecologici per un’agricoltura sostenibile? Noi non ci opponiamo di principio allo sviluppo economico, a patto che sia portato avanti in maniera responsabile e attenta all’ambiente, come prescrive la nostra cultura: sarei un irresponsabile se accettassi la costruzione di queste dighe. Il governo in cambio ci promette lavoro, luce elettrica, ma queste sono illusioni che con il tempo abbiamo imparato a riconoscere: per esperienza sappiamo che nulla verrà mantenuto. La nostra è una lotta giusta, perché stiamo difendendo la nostra casa, la terra dove siamo nati e dove viviamo felici. Vogliamo che il governo rispetti il nostro modo di vivere».
Noé è in carica da soli tre mesi: è molto fermo nelle sue posizioni. Ha studiato a Rurrenabaque, ed è perfettamente a conoscenza dei suoi diritti come indigeno e come boliviano. Gli occhi sono quelli di chi non ha paura di difendere la propria identità, la propria cultura e la propria storia. «È una tappa molto difficile per la mia comunità», mi spiega, «e quello che occorre è un leader che la tenga unita. C’è molta preoccupazione tra la gente: per adesso non sono ancora iniziati i lavori, ma il disegno iniziale deve essere consegnato entro dicembre. A gennaio il governo avrà già tutto ciò che gli serve per iniziare. Tutti i giorni le persone mi chiedono cosa ne sarà di loro e della loro casa, dove li manderanno a vivere. E io non so davvero cosa rispondere».

Arrivare a San José de Uchupiamonas è difficile, fisicamente e psicologicamente. Se la strada è agibile, la soluzione più facile e veloce è pagare qualcuno che abbia una moto e sia disposto ad accompagnarti. Di macchine che fanno il tragitto ce ne sono pochissime: a volte passano giorni prima che qualcuno vada a San José. A piedi ci vogliono otto ore per andare e altrettante per ritornare: le persone di solito passano la notte nella foresta. A Tumupasa, una piccola cittadina sperduta nell’Amazzonia, fatico a trovare qualcuno disposto ad accompagnarmi in moto: sono due ore di tragitto, bisogna attraversare piccoli fiumi, il fango in alcuni punti arriva alle ginocchia, e durante la prima mezz’ora i sentieri sono pieni di grosse pietre, nessuno ha il casco e le moto sono tutte enduro, senza il posto in sella per una seconda persona.
Dopo qualche tentativo trovo Michael, un muratore: concordiamo il prezzo, andiamo a fare benzina e partiamo. Michael mi mette nelle mani una grossa pompa per gonfiare i pneumatici in caso si sgonfiassero: la dovrò tenere in mano per l’intero viaggio, il che non mi permette di aggrapparmi a lui con entrambe le mani. «San José non ha nessun tipo di servizio di base: luce elettrica, strade, acqua corrente nelle case. I bambini la sera studiano ancora con le candele». Denis Lucia Aliaga rappresenta la comunità: il pueblo è una sorta di eden nella foresta amazzonica, in cui vivono all’incirca 60 famiglie. «Una volta eravamo molti di più: negli ultimi anni molte persone se ne sono andate per cercare lavoro altrove, ma se la situazione dovesse migliorare, credo che tornerebbero a vivere qui. Siamo una comunità molto unita, anche se sulla questione delle dighe non siamo tutti d’accordo: alcuni appoggiano il governo, altri no. Ma quelli che sono d’accordo, lo sono solo perché sono stanchi di condizioni di vita così dure e sperano che il governo sia di parola. Nel 2017 camminiamo ancora otto ore per trasportare come muli quello di cui abbiamo bisogno e che non possiamo produrre nella comunità, come lo zucchero. Pochissimi possono permettersi l’automobile, e una barca da qui a San Buonaventura costa 2.500 boliviani. In ogni caso, quando la comunità riesce a permetterselo, il sentiero che porta a Tumupasa è percorribile in automobile solo per tre mesi all’anno: da luglio a settembre. Io personalmente penso che se le altre comunità accettano le offerte del governo, faremo lo stesso anche noi. Per ora comunque non c’è stato alcun accordo».

Dopo aver parlato con Denis, cerco doña Isabel Alvarez: lei e altre donne di San José sono decise a ostacolare in ogni modo la costruzione della dighe. La trovo in casa mentre fa compagnia alla nipote che ha la febbre. «Circa due mesi fa», mi racconta, «sono arrivati degli uomini a San José: vengono qui solo quando hanno bisogno di qualcosa. Ci hanno informato che avrebbero compiuto delle perforazioni qui vicino alla ricerca di petrolio e gas naturale, e che però il danno sarebbe stato minimo. Non te ne ha parlato Denis?». Cerco Michael e lo trovo mentre sta cercando di vendere la sua moto. Prendiamo la via del ritorno.

 

(1): 1 Il 25 settembre 2011 le forze dell’ordine boliviane attaccarono violentemente l’accampamento dell’VIII marcia indigena in difesa del Tipnis, presso la comunità di San Miguel de Chaparina, nel Beni. La marcia, totalmente pacifica, aveva avuto inizio il 15 agosto a Trinidad, e aveva come obiettivo la sede del governo a La Paz. Erano presenti intere famiglie: nessuno venne risparmiato, furono ferite più di 74 persone e alcune condotte in carcere. La violenza dell’intervento scosse l’opinione pubblica: molte persone furono picchiate e ammanettate davanti ai propri figli. Al giorno d’oggi, nessuno è stato ancora condannato per le violenze sui manifestanti.

(2): La strada per San José è poco più che un sentiero nella foresta amazzonica. Piccoli fiumi bloccano il percorso e il livello di umidità della zona è piuttosto alto. I lavori che consentono di mantenere la strada praticabile per almeno tre mesi all’anno – il taglio della vegetazione che altrimenti inghiottirebbe la strada, il livellamento del terreno per evitare che ci sia troppo fango – sono a carico della comunità di San José.