
10 Mag Petros Markaris, la Grecia tra isolamento e povertà
I negozi chiusi di Piazza Omonia, le serrande abbassate da tempo lungo i viali delle zone centrali della città, la gente che aspetta ai tavolini esterni dei caffè, le lunghissime file gialle di taxi raccolte ai bordi delle strade, gli stipendi che si aggirano, in media, intorno ai 400 euro al mese. Nelle strade i cassonetti stracolmi non vengono svuotati da tempo: questa è l’Atene del commissario Kostas Charitos, il personaggio principale di molti libri di Petros Markaris.
Drammaturgo, sceneggiatore, giallista, traduttore, Markaris è nato nel 1937 a Istanbul, da padre armeno e madre greca: ha vissuto a cavallo tra Occidente e Oriente facendo proprio il meglio delle due culture. Traduttore di Goethe e Brecht, collaboratore di Theo Angelopoulos con il quale vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1988, ha raggiunto il grande pubblico grazie appunto al personaggio del commissario Charitos, protagonista di una serie di gialli ambientati tra le affollate strade della capitale greca.
Come in un gioco di specchi in cui si confondono la copia e l’originale, con la sua ultima raccolta di racconti, L’assassinio di un immortale. Dalle rotte dei migranti alle indagini del commissario Charitos (La nave di Teseo 2016, al centro di un incontro del Salone del Libro di Torino intitolato Mettere a fuoco il presente: la Grecia e l’Europa, venerdi 13 febbraio, ore 13.30, Arena Bookstock), Markaris torna a intrecciare attualità e finzione in una Grecia che si trova a fare i conti con una nuova emergenza umanitaria: quella dei rifugiati bloccati nel paese. È all’interno di un reportage sull’attesa dei migranti e dei profughi in fuga dalla guerra, ammassati in tendopoli spontanee o dimenticati in strutture inaccessibili, che trova uno spazio questa intervista allo scrittore che racconta la sua disillusione verso il governo e l’Unione Europea e insieme la tenacia generosa del popolo greco.
«Il romanziere […] considera l’arte come una riproduzione oggettiva del reale governata dalle leggi della natura, rivendica l’impegno morale dello scrittore che, mettendo in luce le cause dei fenomeni sociali, deve indurre la società stessa a intervenire per modificarli e migliorarli»: sono parole di Émile Zola, nel pieno del naturalismo, quelle che investono lo scrittore di una responsabilità a cui Petros Markaris sembra risoluto a tener fede.
Lei è nato nel 1937 ed è stato apolide fino al 1974, quando ha ricevuto la cittadinanza greca. Come ha vissuto questa condizione? Quanto è importante per lei avere una patria d’appartenenza?
Non ho mai sofferto per la mia condizione di apolide. A dire la verità ho una difficile relazione con quella che gli italiani e i greci chiamano fieramente patria, perché non ne ho mai avuta una. Anche se sono nato e cresciuto in Turchia non considero questa terra il mio paese, anzi il forte nazionalismo di questo stato mi ha portato a distaccarmi dal concetto stesso di nazione. Nonostante sia stato privo di cittadinanza per molti anni, provo un sentimento di particolare vicinanza per alcune città. Se mi chiedessi da dove vengo ti risponderei Istanbul, ma sono e mi ritengo greco perché è la lingua con cui parlo e scrivo. Io sono un’eccezione, ma penso sia nella natura dell’uomo sentire la necessità di appartenere a un luogo preciso.
Da situazioni difficili a volte è possibile che nasca un sentimento di solidarietà. Pensa sia questo l’atteggiamento del popolo greco dopo questi anni di durissima crisi? Come sta rispondendo alla presenza dei 50.000 rifugiati presenti sul loro territorio?
La Grecia è in una situazione molto critica per due motivi. Il primo è la crisi economica, che non è ancora terminata e non so ancora per quanto tempo durerà. Quando si soffre per lunghi periodi, le reazioni delle persone a volte possono diventare imprevedibili. Il secondo, che è anche il più recente, è l’emergenza dei rifugiati che è andata a sommarsi alle circostanze già difficili. I greci sono stati molto solidali con i profughi, li hanno aiutati e continuano a farlo anche se loro stessi vivono un periodo durissimo. Bisogna tenere in considerazione che l’estate è alle porte e specialmente sulle isole le persone vivono di turismo, campando per un anno intero solo con i ricavati della stagione. Non so cosa potrebbe accadere se i turisti quest’anno non dovessero arrivare a causa dei rifugiati. Il governo greco non sta facendo abbastanza per questa situazione e ha deciso di intervenire troppo tardi.
Cosa pensa si sia salvato di Schengen? E riguardo all’accordo che l’UE ha siglato con la Turchia per il rimpatrio dei profughi?
Schengen è nato per un semplice motivo: gli europei non potevano accettare la dissoluzione degli stati nazione a favore di una federazione vera e propria. Se ci fosse stata, non ci troveremmo nella situazione d’emergenza in cui siamo. I problemi da considerare sono svariati e uno dei più complessi è quello dei trafficanti. Anche se si bloccassero le rotte marittime tra Turchia e Grecia, abbassando il numero di sbarchi sulle nostre coste, i trafficanti di uomini troverebbero comunque un’altra via, per esempio l’Italia. Questione poi da non sottovalutare è la condizione politica della Turchia: è una democrazia che sta vacillando, molti giornalisti e civili sono stati arrestati e chiunque abbia un pensiero non allineato, e lo manifesti, ne paga le conseguenze. Mi preoccupa che di fronte a tutto ciò l’Europa chiuda gli occhi per puro tornaconto. Per i rimpatri cosa posso dire: per ora sono stati deportati in Turchia solo migranti economici.
Che soluzione proporrebbe per arginare l’emergenza umanitaria di queste migliaia di persone?
Penso ci sia una differenza tra rifugiati politici e migranti economici. Dobbiamo affrontare i fatti realisticamente. In questo momento abbiamo a che fare con persone che non possono vivere più nelle loro nazioni a causa della guerra: devono avere una priorità. Se non diamo a loro la precedenza, le condizioni peggiorerebbero e nessuno accoglierebbe nessuno. È impossibile per la Grecia e l’Italia ospitare entrambe le categorie. Solo dopo aver fatto una distinzione si può parlare di integrazione; uno stato come la Grecia, nelle condizioni precarie in cui si trova oggi, non riuscirebbe mai ad accogliere e integrare anche i migranti economici. Il tasso di disoccupazione della Grecia ha raggiunto quasi il 30%, è impossibile per noi accettare i migranti economici, chi troverebbe un lavoro per loro? Per quanto riguarda l’Unione Europea: ha fallito e lo prova la situazione ai confini della Macedonia e dell’Austria. Quest’ultima ha innalzato i suoi muri con la consapevolezza che per noi è impossibile farlo, così scaricando tutti problemi, come del resto fa l’Europa intera, solo su due nazioni: l’Italia e la Grecia.