10 Mag We refugees
di Pasini Martina e Alessandra Cucchi
“I‘m looking for…”. E’ il titolo di un foglio A4 appeso dalla Croce Rossa alla plastica esterna delle tende del campo profughi di Slavonski Brod, Croazia. Sotto il titolo, una serie di fotografie: uomini, donne, ragazzi che si sono persi, che hanno perso un familiare o l’intera famiglia, come capita spesso nei viaggi e nelle fughe. “My husband, brother, son, family” (mio marito, fratello, figlio, famiglia). “Se hai qualche informazione per favore, contattaci. Le tue informazioni rimarranno confidenziali.”
Dall’esterno il campo appare blindato: è circondato da decine e decine di camionette della polizia allineate una in fianco all’altra che sembrano voler ricordare, insieme alla rete e al filo spinato, l’incolmabile distanza tra i dentro e il fuori. Fino allo scorso settembre era un oleodotto: il treno che trasportava merci fin dentro la struttura ora trasporta persone.
Da qualche mese a questa parte, con la progressiva sospensione di Schengen da parte di numerosi stati Europei, la pressione dei controlli alle frontiere e l’arrivo dell’inverno, è stato deciso di allestire un sistema a tappe sul quale si snodano una serie di campi, prevalentemente di passaggio, all’interno dei quali i migranti vengono registrati e ricevono i primi aiuti. I profughi che scendono disordinatamente dagli autobus (il treno a causa di un guasto si è fermato alla stazione di Garčin) sotto lo sguardo vigile della polizia, dotata di mascherine e modi bruschi, sono svariate centinaia e sono tutti rifugiati politici: si fermano nel campo qualche ora e poi ripartono verso la tappa successiva, molto probabilmente la Slovenia. Questo esodo ha inizio nelle zone di guerra della Siria, dell’Iraq e dell’Afghanistan e si articola attraverso la Turchia, la Grecia, la Macedonia e i Balcani, che costituiscono ancora una rotta più sicura rispetto a quella dei trafficanti libici, del Mediterraneo e dell’Italia. La meta sono i paesi del Nord Europa, la Germania, l’Inghilterra; nessuno vuole fermarsi nei Balcani, che non si sono ancora rialzati dalle guerre di quindici anni fa.
Non ci sono vecchi che scendono dagli autobus, a parte una donna dallo sguardo severo ammantata in un lungo vestito bianco che stringe al collo un bambino: avrà cinquant’anni. Tutti gli altri sono ragazzi e giovani famiglie: alcuni di loro hanno tratti somatici marcatamente asiatici. Ci sono moltissimi bambini: uno abbraccia gelosamente un pallone colorato, i profondi occhi marroni corrono curiosi intorno alla montagna di zaini e coperte che ha avuto il compito di sorvegliare.
Per semplificare il controllo dei documenti, le persone vengono fatte entrare in una struttura, riparata sotto due tendoni, che li costringe a incolonnarsi in fila indiana: è un box di ferro blu molto alto, come quello che viene utilizzato per le vacche in sala mungitura. C’è appena lo spazio per permettere alle madri di tenere i figli per mano, al loro fianco. Il campo è molto esteso: una serie interminabile di tendoni per supplire alle esigenze primarie dei profughi e dei numerosi poliziotti e volontari che quotidianamente lavorano all’interno. Un ospedale, una sala giochi per i bambini, una rivendita di sigarette e bevande calde, un deposito per i vestiti da distribuire, i bagni, le docce, i tendoni dormitorio, le sale per la preghiere e per la distribuzione del cibo. Ma un piatto caldo è un lusso: una volta passato il controllo dei documenti, ai profughi viene distribuito un pacchetto contenente una bottiglia d’acqua, un frutto, e uno snack. Nessuno si lamenta, il viaggio estenuante e la reiterazione e la lentezza delle procedure burocratiche non ha strappato loro la voglia di vivere: una giovane madre ride mentre rimprovera il figlio che, pur camminando appena, vuole andare a curiosare in giro, un padre dice ai suoi due bambini di fare ok con il pollice mentre vengono fotografati.
Mentre nel resto dell’Europa i riflettori sono puntati sui numeri da arginare e sui problemi da risolvere, gli ospiti di Slavonski Brod, infreddoliti, affamati, sporchi e stanchi sono quasi arrivati a destinazione: non sono un’orda indistinta che incombe minacciosa sull’Europa, sono persone normali ognuna con la propria storia da raccontare e le proprie aspettative sul futuro.
Dobova Kamp
Il fetore. Il fetore attaccava in gola. Penetrante, pungente, nauseante. Ristagnato da settimane in quelle quattro mura di plastica umida. Iniziammo a raccogliere le prime tra le molte coperte che ricoprivano l’intero sudicio pavimento in legno del tendone numero tre. Pesanti, bagnate e sporche. Pezzi di biscotti, bottiglie d’acqua, torsoli di mela, assorbenti. Le sbattevamo, le piegavamo, cercando forse di renderle migliori, più pulite, per l’arrivo dei prossimi profughi. Ma non funzionava. L’odore persisteva e nonostante i guanti in lattice potevamo percepire l’umidità intrappolata in quei plaid. Raccogliere, sbattere, piegare, impilare e ancora, raccogliere, sbattere, piegare, impilare. Così fino alla fine di quella interminabile tenda. Il fetore perdurava ed era impossibile abituarcisi. Si aveva la sensazione che stesse impregnando qualsiasi cosa, capelli, pantaloni, giacca, sciarpa, sembrava che potesse insinuarsi in qualsiasi tessuto per arrivare dentro di noi. Pian piano la pila di coperte traballanti accanto alle varie transenne cresceva lasciandosi alle spalle solo la sporcizia delle persone che erano passate di lì e miseri oggetti seminati nel loro passaggio: cuffie, zainetti, sacchi a pelo e peluches. “Buttate via tutto!”- ordinò una voce autoritaria. Un attimo dopo, un uomo coperto da capo a piedi da una tuta bianca con tanto di mascherina passò con un grosso scopettone che si portò via tutto. Rimasero solo un paio di disegni realizzati dai più piccoli attaccati alle pareti.
Nessun tesserino e nessuna macchina fotografica ci avrebbero accompagnato in giro per Dobova Camp: questa volta indossavamo pettorine gialle della protezione civile, mascherine e guanti in lattice per questioni di sicurezza. Eravamo arrivati la sera precedente, il buio era già calato e dopo aver passato i meticolosi controlli alla dogana croato-slovena, proseguimmo. Bastò poco, eccolo lì, a circa 200 metri dal confine. Grosse tende bianche, transenne e pullman mal parcheggiati sul marciapiede. Il mattino seguente ci recammo alla stazione ferroviaria e fatta eccezione per un paio di possibili passeggeri, il resto erano forze dell’ordine. Un nastro bianco con la scritta in blu: “stop policija” pendeva dal corrimano del sottopassaggio e all’ultimo binario si delineava un percorso fatto da transenne che conducevano sul retro della stazione. Le forze dell’ordine si guardavano attorno: stavano aspettando l’arrivo di un treno e noi non eravamo i benvenuti: “La stampa!”- sussurrano.
“Stiamo realizzando un reportage sul flusso migratorio che sta attraversando i Balcani…”- spieghiamo al capo delle forze armate imbruttito da un occhio pesto. “Semplice, la risposta è no!”. Ci da un numero da contattare per avere un permesso e in meno di un minuto si libera di noi. Inutile dire che nessuno ha mai risposto. Arrivati al campo oltre ad una lunga distesa d’erbacce non sembra esserci molto. Due militari in tenuta anti sommossa armati con dei grossi mitra controllano il perimetro. Tra i volontari sembra esserci un po’ d’agitazione, quell’ansia tipica di chi forse non ha tutto sotto controllo. Le forze dell’ordine sono ovunque e come ci spiegano: “Qui comandano loro”. Non hanno tempo di tener d’occhio anche noi, al contrario scarseggiano i volontari e così decidiamo di dare una mano. Nessun controllo, indossiamo la pettorina ed entriamo in direzione del dormitorio numero Tre. Ascoltiamo le ultime direttive per operare nel campo e nel frattempo assistiamo a una diatriba tra una volontaria e un agente: la tensione tra gli operatori è palpabile, anche se questo campo ospita al massimo 400 persone, quindi è abbastanza piccolo. Scusatasi per la scena la giovane ragazza ci chiede di recarci al dormitorio per aiutare nelle pulizie. Dormitorio è tutto dire. Nessun letto. Solo una montagna di coperte buttate a terre in un pavimento sudicio. Dalla tenda che ci separa con l’esterno vediamo una fila di persone, avvolte in pesanti coperte, che si mette in coda per salire sugli infangati autobus in partenza. Qualcuno è fortunato e riesce a sedersi qualcuno un po’ meno e dovrà stare in piedi o accontentarsi di uno spazio per terra. Stanchi, stringono le mani dei loro figli e sorreggono i loro zaini, incitati da un agente militare armato di tutto punto che si destreggia tra loro come fossero carcerati in procinto di partire per l’ennesima galera. I pullman, uno dietro l’altro escono dall’ingresso del campo, costeggiato da due grossi mezzi blindati: “A che cosa servono?” “Solo scena” -risponde un volontario.
“Non tutti i poliziotti sono uguali ma non si può negare quello che è successo in Bulgaria e in Ungheria” -spiega Tea Vidovic operatrice del campo di Slavonski e nelle cittadine di Tovarnik, Opatovaz e Bazlka- “moltissimi rifugiati hanno subito violenze e sono stati derubati di quello che avevano e a farlo sono state proprio le forze dell’ordine. Se c’è qualche tensione nel campo siamo noi volontari che cerchiamo di fare da mediatori, le forze dell’ordine probabilmente userebbero delle armi repressive, per placare una semplice discussione. Non ho assistito ad aggressioni qui in Croazia, ma i commenti e le battute di cattivo gusto non mancano, soprattutto da parte delle autorità. I poliziotti, li chiamano bestie, gli urlano “yalla yalla!” (andate, andate!). Generalizzano molto! Pochi giorni fa, alcuni volontari della Croce Rossa stavano distribueando dei biscotti chiamati Paris; i poliziotti mostravano queste confezioni ai rifugiati e gli dicevano: “Andate a Parigi, andate a Parigi! In riferimento all’attentato di novembre. Non sono tutti così -continua Tea Vidovic- alcuni si commuovo ancora, altri invece sono impassibili. Queste persone sono sfinite. Quando gli diamo dei capi vogliono, toccare, guardare e scegliere e alcuni volontari si arrabbiano, ma non capiscono che almeno noi dovremmo dargli il piacere di poter cercare qualcosa che sentono più vicino a loro in mezzo a tutto questo strazio?”
La situazione non è certamente facile. La Croazia come il resto dei Balcani non è una nazione abituata a grossi flussi migratori e tanto meno economicamente ricca. “La paga minima qui è di 250 euro al mese” -spiega Dalibor capo del centro di volontariato di Slavonski- “se potessi me ne andrei pure io”. L’emergenza migranti è diventata quindi una crisi dentro la crisi, la quale porta in alcuni casi ad essere gli uni contro gli altri, contrapposti in questa guerra tra poveri. “Oggi è successo qualcosa che mi ha aperto gli occhi” – spiega ancora Tea Vidovic- “stavo cercando una giacca per un rifugiato nel ripostiglio e un ragazzo croato che lavora nel campo come addetto alle pulizie mi ha chiesto se poteva averne una anche lui. È un vero dilemma”.
Motel Adasevci
Wim Wenders lo aveva chiamato Million Dollar Hotel: rifugio di pazzi, drogati e disadattati. Con i loro fardelli di storie e disperazione.
Le persone che abitavano nel Million Dollar Hotel si identificavano con esso, intrecciavano relazioni al suo interno, lo consideravano “casa”. Al non luogo per eccellenza, l’hotel, vengono rovesciati i connotati: diventa il tetto di emarginati, di reietti, di outsiders. Ma la realtà talvolta supera di gran lunga la fantasia.
Al Motel Adasevci, costruito sull’autostrada E-70, a lato di una stazione di servizio sul confine tra Serbia e Croazia, le storie d’amore lasciano spazio alla speranza, che troppo spesso si trasforma in disperazione dei suoi ospiti, profughi alloggiati alla bene meglio dove si trova uno spazio. Negli angoli bui di questo mondo.
Sono le cinque del pomeriggio, ma sembra notte inoltrata: se non fosse per le automobili che sfrecciano a tutta velocità lungo l’autostrada e l’odore nell’aria dei mezzi pesanti, il buio pesto aiuterebbe l’immaginazione: le persone in viaggio da un mese potrebbero immaginare di essere arrivate. Ma il tanfo di piscio che l’ammoniaca dei bagni chimici non riesce a coprire, i container strapieni di spazzatura, vestiti, residui di cibo e l’odore onnipresente di mancanza di pulizia, lasciano poco spazio all’immaginazione.
“Dove siamo?”, mi chiedono tre ragazzi appena scesi da uno dei dieci autobus arrivati da poco e parcheggiati uno dietro all’altro, in un’infinita fila, nello spazio antistante il motel: i cartelli stradali in cirillico disorientano. Non ci sono forze dell’ordine, né l’esercito a contenerli e a controllar loro i documenti, sono un flusso continuo di persone: prendono i pochi effetti personali accatastati nella pancia del loro autobus e poi corrono chi verso i bagni, chi a caricare il cellulare per scrivere a parenti e amici che aspettano loro notizie (il cellulare in questi casi non è un gioco, come il wi-fi non è un lusso, ma l’unico mezzo per sapere che si è ancora attaccati alla vita) chi a magiare
qualcosa, chi a stendersi al caldo. Le donne hanno due, tre bambini a testa, alcuni tenuti al collo, altri trascinati per mano.
“In Serbia, quasi in Croazia”, rispondo io. Dei tre, è solo uno che parla inglese: due occhi verde brillante che guardano distrattamente me e ciò che lo circonda: non dev’esserci niente di nuovo per lui, l’ennesima tappa di un viaggio estenuante.
“Mi chiamo Amir, ho vent’anni. Vengo dall’Afghanistan, da quando c’è la guerra ho cercato di fuggire dal mio paese, voglio andare in Inghilterra. Ho ottenuto lo status di rifugiato politico, sul nostro autobus ci sono altre quaranta persone, tra cui quindici bambini, il viaggio è lunghissimo.”
I documenti, lo status di rifugiato: i loro salvavita, la loro chiave per la salvezza.
Stefan Zweig nel 1942, un anno prima di suicidarsi con la moglie, ne “Il mondo di ieri”, scriveva: “Una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano.” Perdita. Perdita d’identità, perdita di persone, perdita di beni, perdita di terra, perdita nella fuga di tutto ciò che identifica l’uomo e che è sintetizzabile ora in un pezzo di carta conservato nella tasca interna della giacca: ufficialmente è tutto quello che sono.
Mohamed, alto, dinoccolato, avvolto in un cappotto che lo copre dalla testa ai piedi, una cuffia di lana calata fin sopra gli occhi, il segno dei baffi e la barba solo accennata ne rivela la giovane età: diciott’anni anni.
Parla volentieri, nonostante il suo inglese sia stentato e gli costi evidentemente fatica: “Vengo dall’Iraq, abbiamo attraversato il mare dalla Turchia allo Yunan (Yunanistan è come, sin dai tempi dell’Impero Persiano veniva chiamata la Grecia, retaggio arrivato fino ai giorni nostri, ndr) su piccole imbarcazioni stipate di persone: ne caricavano fino a venti. La traversata in mare è stata molto difficile, tutti i nostri vestiti si sono distrutti, non avevamo scarpe, non avevamo nulla, nessuno ci ha aiutato. Poi abbiamo iniziato la risalita passando dalla Macedonia”.
Gli chiedo com’è la situazione ora in Macedonia, sapendo che l’emergenza umanitaria si è spostata in quella zona, evidentemente non preparata ad accogliere l’esodo di migliaia di persone.
“In Macedonia le frontiere sono piene di gente -continua Mohamed- ci sono molte persone che aspettano: noi abbiamo aspettato due giorni e due notti al freddo. Molte persone sono ammalate, inoltre c’è moltissima polizia che ci controlla per futili motivi, per sciocchezze. E’ un mese che sto viaggiando ininterrottamente, non mi fermo neanche per dormire, i viaggi sono massacranti di dieci ore alla volta. Ad esempio, stamattina il viaggio è iniziato alle sette: adesso sono le sei di sera e non c’eravamo ancora fermati. Sugli autobus non sempre ci sono abbastanza posti per tutti: sul mio ci sono sessantadue persone di cui venti bambini.”
Gli chiedo dov’è diretto, se troverà qualcuno ad attenderlo. “Vado in Germania, sono solo, la mia famiglia è stata distrutta, ci siamo salvati solo io e mio cugino. Quanti stati bisogna ancora attraversare per arrivare in Germania?”. “Tre -gli rispondo- non manca molta strada, buona fortuna.” Sorrido, ci diamo la mano: “Piacere di averti conosciuta”, mi risponde lui.
Croce Rossa e UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) sono le principali organizzazioni che stanno lavorando in questo momento nei campi profughi dei Balcani, ma ce ne sono molte altre, di più modeste dimensioni, che a livello locale si occupano di questa emergenza umanitaria. Tanja, una volontaria di una di queste piccole associazioni, molte volte legate al territorio e sulle quali pesa meno la pressione dei vincoli istituzionali, racconta da dove arrivano gli autobus che si fermano al Motel Adasevci.
“Il flusso non è costante: ora ad esempio ci sono, su per giù, seicento persone, ma non è facile fare previsioni. I bus caricano i profughi nel campo di Presevo, al confine tra la Serbia e la Macedonia, e li trasportano a nord, verso Belgrado e Sid e poi successivamente verso la Slovenia e l’Austria. Gli autobus che sono fermi qui al motel, viaggiano ancora per una ventina di minuti fino alla stazione dei treni di Sid: poi in treno i rifugiati passano il confine croato”.
Chiedo a Tanja chi paga il trasporto: “Loro – mi risponde lei – la Serbia non fa parte dell’Unione
Europea”. Fugge dalla guerra solo chi può permetterselo: la Turchia, l’attraversata del mare greco, il costo è di migliaia di dollari versati nelle tasche di trafficanti di esseri umani.
Il viaggio di Morteza
“Il mio viaggio è iniziato in Iran e lì devi stare attento a tutto. Al governo, alla polizia, agli iraniani perché molte persone sono razziste. Sai penso sia davvero una nazione bellissima ma senza i suoi cittadini (ride)”. Morteza ha 23 anni, afghano d’origine, viveva in Iran, dove sognava di terminare gli studi e di diventare un poeta. Cinque mesi fa ha deciso di lasciare la sua casa nella speranza di trovare un futuro migliore. “L’Afghanistan è il mio primo paese” – afferma fieramente “ed è in guerra da circa 15 anni, abbiamo combattuto anno dopo anno. È una sensazione orrenda, tutto il tempo senti il rumore delle bombe e degli spari e ti chiedi chi starà morendo ma allo stesso tempo sai tra te e te che non ci puoi fare nulla”. Come Morteza, nell’ultimo anno ben 70mila cittadini iraniani hanno deciso di lasciarsi alle spalle la guerra, ma anche la propria vita ed a volte i propri cari nella speranza di trovare un nuovo inizio.
“Ho avuto l’ultimo contatto con i miei genitori tre mesi fa quando mi hanno annunciato che sarebbero partiti anche loro per l’Europa, ma non ho più avuto loro notizie e non so dove si trovino”. Accenna un lieve sorriso e cerca di non abbattersi: “Ho così tanto a cui pensare e quando sei lontano dai tuoi parenti vivi tutto con stress” – il ritmo della parlata aumenta come se volesse sfogarsi- “devo andare anche dallo psicologo perché ho dei problemi con il sonno, non riesco a dormire di notte. Mi spavento con poco e ancora di più se vedo la polizia. Qui in Austria tutti vogliono aiutarmi. Tutti sorridono non come in Iran. Gli iraniani sono meschini e fascisti, volevano sempre colpirmi o spararmi. Dovevo passare tutto il tempo sorridendo anche se in realtà era falso e fargli credere che fossero i migliori”.
Morteza ha poco più di vent’anni ed i tratti del suo viso sembrano ancora quelli di un bambino. Mi spiega di come non avesse altra scelta che scappare. O si arruolava con l’esercito iraniano e andava a combattere per almeno nove mesi per ottenere il passaporto o tornava in Afghanistan. “Due paesi, due guerre e due scelte di morte” – conclude. Gli chiedo come abbia fatto a organizzarsi per partire. “Tutti in Afghanistan e in Iran sanno come arrivare in Europa -mi spiega con fare scontato- basta trovare un contatto telefonico e dall’altro capo ci sarà qualcuno che ti vuole aiutare. Una volta trovato il numero li ho chiamati dicendogli che volevo andare in Germania e loro mi hanno spiegato cosa dovevo fare”. L’appuntamento era nella piazza di Azadi a Teheran, la piazza commemorativa del re: l’ingresso alla grande città. Lì ad aspettarlo trovò una macchina che passando per Urmia lo porta a Maky, una cittadina sul confine con la Turchia. “Sceso dall’auto ho iniziato a camminare senza mai fermarmi per 12 ore fino a Dogubyazit.” – racconta- “In Turchia ho visto molte persone morire, sulla montagna e vicino al fiume. I soldati turchi ci sparavano e ci urlavano di tornare al nostro paese e in alcuni tratti della nazione ci siamo imbattuti anche in alcuni scontri con i curdi, era così pericoloso stare lì”. Le ‘persone’ che aiutano Morteza, di cui lui non mi dice nulla di più nonostante io insista, gli trovano un posto dove risposarsi per tre giorni. “La casa era piccolissima e qui ho ricevuto i miei primi documenti spacciandomi per Siriano che mi hanno permesso di passare i controlli della polizia presso la stazione degli autobus di Ankara”.
Dopo aver attraversato l’intera Turchia da Dogubyazit a Istanbul, in autobus, Morteza riceve una chiamata da un uomo che non conosce, il quale però gli dà indicazioni precise per il suo prossimo spostamento: “M’inviarono un taxi e mi portarono in un’altra casa a Smirne sulla costa. Finalmente dopo una settimana di viaggio mi sono potuto fare una doccia”.
Tutto ha un prezzo e quello per la prossima tratta è di 1500 dollari: l’attraversamento dell’Egeo salpando da Mitilene in compagnia di altri 44 uomini. “La barca sarà stata lunga non più di 5 metri e durante il viaggio abbiamo iniziato a imbarcare acqua finché non siamo finiti in mare dove ci siamo rimasti per più di tre ore, ho perso tutti i miei documenti e gli attestati scolastici. All’arrivo dei soccorsi sono stato tratto in salvo e con me anche altre sedici persone. Gli altri invece mi sono morti davanti.” Si ferma un attimo, la voce è spezzata e gli occhi lucidi: “Uno di loro era un mio
amico, non dimenticherò mai tutto ciò. Ci penso spesso, ci siamo conosciuti durante il viaggio, ad Ankara, da subito è nata una perfetta intesa, ci aiutavamo sempre”. Salvo e stremato Morteza raggiunge finalmente la costa: “Appena sbarcato ho pensato: è questa la Grecia?”. Spiagge sporche e bottiglie di vetro e plastica ovunque. “Non ci potevo credere sono scappato da un paese distrutto ma non mi sembrava di aver trovato molto meglio”.
Dopo essersi fermato per cinque giorni sulla costa greca si sposta verso Atene dove gli è stato comunicato di farsi trovare nel parco della Vittoria. Al suo arrivo però non è l’unico. “Eravamo in moltissimi. Ogni tanto arrivava un uomo, urlava qualche nome e le persone chiamate dovevano seguirlo. Arrivò anche il mio turno e mi portarono in un’altra casa dove passai altri cinque giorni. Pagammo la quota di questa tratta ma non ricevemmo né cibo né acqua e la situazione iniziò a farsi tesa. Eravamo stati fregati.” Nella quota pagata per ogni singolo tratto di strada, i così detti trafficanti umani, oltre a portare i profughi da una località all’altra avrebbero il compito anche di fornire ai propri ‘clienti’ i viveri necessari alla sopravvivenza.
“Morteza quanto ti è costato il biglietto per la tua salvezza? Quanti soldi hai dato a questo uomo in Iran?”. “Non ho pagato il prezzo dell’intero viaggio in Iran, ogni tappa ha il suo. In Turchia ad esempio ho pagato 1 milione di toman, in Grecia 160 euro per avere del cibo”. “In tutto?” “3600 dollari”.
“Per questa cifra perché non hai preso un aereo?”.
“L’Ue lascia alle compagnie aeree la decisione di imbarcare o meno un migrante senza visto, attribuendo a queste ultime la responsabilità di determinare chi è un rifugiato e chi non lo è. Se le compagnie prendono una decisione sbagliata, il viaggio di ritorno è a carico loro. Per questo motivo non imbarcano nessuno senza visto”.
“Non mi avevano dato nulla da mangiare ma almeno avevo il mio biglietto. Passando per la città di Salonicco in autobus sono arrivato in Macedonia. A quel punto mi aspettava un treno che mi avrebbe portato fino in Serbia. Con i miei documenti falsi e con un po’ di fortuna sono riuscito a salire su uno dei due treni che ogni giorno copre questa tratta”. 400 km e 7 ore di viaggio dopo Morteza si trova in Serbia dove aspetta per circa un giorno nella stazione ferroviaria le nuove dritte: “Da subito ho notato la povertà di questo paese ma questo era ottimo per me perché non avevo moltissimi soldi. Incontrato l’ennesimo aiutante sono stato condotto ad un’altra abitazione a Kruševac. Era orrenda, l’odore pungente e c’erano persone da tutto il mondo, siriani, afghani, pakistani, somali… ognuno parlava una lingua diversa. Scelsero 20 rifugiati, tra cui me, per andare in Germania.” Il sogno di Morteza era quello di raggiungere la Germania o la Svezia come i suoi vecchi vicini di casa i quali gli avevano fatto avere il contatto del famoso uomo che avrebbe aiutato anche lui ad arrivare nel tanto sognato nord Europa. Arrivato a Belgrado in autobus i chilometri da percorrere erano sempre meno: “Da ora avrei dovuto viaggiare con queste persone che nemmeno conoscevo e la parte pericolosa sarebbe iniziata proprio adesso. Dovevamo attraversare una foresta in Ungheria stando attentissimi alle forze armate, perché se ci avessero scovati e avessero preso le nostre impronte digitali avremmo dovuto scordarci sia la Germania e che la Svezia”. La mancanza di un legislazione comune all’interno del territorio dell’Unione Europea, obbliga qualsiasi rifugiato ad avviare le pratiche di richiesta d’asilo nel primo paese del trattato Schengen in cui gli vengono prese le impronte digitali.
“Per tutta questa parte del viaggio abbiamo dormito all’aperto, sull’erba e una delle due persone che avrebbe dovuto guidarci ci ha lasciati soli. Siamo stati nella foresta per circa quattro giorni. Con noi viaggiavano anche due donne e tre bambini. I più piccoli erano impauriti come tutti del resto, continuavano a piangere, non avevamo nulla da bere e il mangiare era davvero poco, solo mele e pesche. L’uomo rimasto a guidarci era di origini pakistane e ci minacciava di continuo: “Se fate ancora casino vi ammazzo tutti” mostrandoci un coltello lungo circa 30cm”. Condotti fino a un furgoncino vengono fatti salire e schiacciati nel cassone retro stante. “Il portone non si chiudeva nemmeno, dovevamo tenerlo, a ogni curva temevamo di cadere fuori e ci fermavamo di continuo. Eravamo terrorizzati, in Ungheria la polizia era terribile, loro non pensano a chi hanno davanti
vogliono solo colpirti tutto il tempo”. Ma finalmente, dopo circa un mese di viaggio, Morteza arriva in Austria e pieno di aspettative vive giorno per giorno: “Qui tutto è cambiato, tutti vogliono aiutarmi. I miei vestiti erano mal ridotti e sporchi e me ne hanno dati di nuovi, ora ne ho molti. Fino alla mia prima seduta dove prenderanno in esame il mio caso dovrò stare qui. Se l’incontro andrà bene deciderò cosa fare della mia vita. Voglio cambiare tutto. Sai sono un poeta sono un uomo di scrittura e voglio essere uno scrittore anche in Europa. Ho scritto già il primo dei miei libri che parla dell’Iran, ora vorrei scriverne uno che narra la pericolosità del viaggio che ho fatto e l’ultimo vorrei che fosse un’opera per presentare l’Afghanistan e gli afghani all’Europa per farci capire meglio e per darvi la possibilità di sentirci”. Ora Morteza ha un’abitazione che condivide con altri rifugiati fornitagli dal governo austriaco ma la sua scalata per conquistare lo status di rifugiato è appena iniziata: “Essendo afgano e non siriano dovrò dare moltissime motivazioni per far sì che considerino il mio caso. Odio la politica, dovrebbero salvarci tutti”. Nonostante questo sembra essere felice e fiducioso; prima di salutarmi mi dice che ha ancora qualcosa da dire e inizia così una lunga lista di ringraziamenti adi tutti i volontari, che ha incontrato o quasi e sorridendo aggiunge: “We are all the same!”